Per entrare bisogna scostare una tenda, come di garza sottile, e poi piegarsi. Il buio acceca per qualche secondo, in questa casa che è una tana di terra dove l’aria e la luce filtrano solo dalla stretta porta d’ingresso. Jean de Dieu Amani Paye tiene in braccio il suo minuscolo bambino, avvolto in una stoffa elegante. Nel suo villaggio era un insegnate di francese e latino, ed aveva una piccola attività commerciale. Coltivava anche la terra: manioca, mais, sorgo e fagioli.

Adesso è un leader del campo profughi ISP alle porte di Bunia, la capitale della provincia dell’Ituri, e la sua battaglia non è solo sopravvivere, ma aiutare a vivere chi non ha più nulla, se non la memoria dell’orrore. La sua è una battaglia contro il “rancore”.

“Ci sono sempre rancori che restano nel cuore delle persone perché vedono le condizioni di vita che conduciamo qui”, spiega. “Se pensiamo a cosa è accaduto da quando siamo arrivati, questo ci getta nel rimpianto”. E’ scappato, ha dovuto lasciare tutto, come quasi due milioni di persone, in quella che è una delle più gravi e dimenticate crisi umanitarie del pianeta, effetto del conflitto senza fine che si combatte nelle campagne di questa regione, estremo nord est della Repubblica democratica del Congo, al confine con l’Uganda, dove il verde della foresta si impasta all’ocra e al rosso della terra.

Cosa alimenta il rancore lo raccontano Bile Luchobe e gli uomini e le donne che hanno raggiunto i campi di sfollati di Bunia dai territori di Djugu ed Irumu. “Queste persone se ne vanno con la testa di chi uccidono e mutilano il loro ventre, lasciando poi il corpo lì, tra gli alberi. Stanno bruciando le case. È impossibile rimanere in queste condizioni, quindi sono fuggita”, racconta.  “Uccidono una persona e mangiano il suo cuore, impossibile restare in un posto del genere”, aggiunge.

Dal maggio di quest’anno, il governo congolese ha decretato lo stato di assedio, e sono i militari a tentare di controllare un conflitto che torna ad ondate come una maledizione. Prima, dal 1998 al 2003, poi di nuovo fino 2007. Nel 2017 c’erano meno di 500 mila sfollati, quest’anno un milione e 700 mila, in una regione poco più piccola dell’Irlanda. Il picco si è avuto nel giugno del 2020, quando la brutalità dei gruppi armati ha svuotato i villaggi. Tanti sfollati perché i civili sono obiettivi, il terrore e lo stupro, armi di guerra. Una guerra che a raccontarla come il frutto di un odio ancestrale si rischia solo di gettare alcool su un incendio.

Bile ha paura che quello che è accaduto a Djugu possa accadere anche lì. “Per noi donne, che tu scappi o oppure no, questi banditi ti prenderanno, ti violenteranno. Anche se sono dieci persone, tutti passeranno sopra di te”, aggiunge. Ha attacchi di panico, perché in questo fazzoletto di terra dove potrebbero al massimo viverci quattromila mila persone ma che oggi ne ospita oltre dodici mila, gli spari di notte ricordano che la guerra è vicina.

Jean de Dieu Amani Paye

L’ISP, dove vive Jean de Dieu, segretario del comitato che dirige il campo, è nato dalla fatica dei profughi su una proprietà dell’Institut Supérieur Pédagogique e della Diocesi di Bunia. Hanno costruito piccoli ripari con canne, fango e ciottoli sul pendio di una collina, cosi attaccati che ci si passa a fatica, e grandi spazi comuni, capannoni, fitti di troppe anime. Non è l’unico campo alle porte della città. Kigonze ospita un numero crescente di profughi, ed è stato pianificato, costruito dalle organizzazioni umanitarie nel 2019 per accogliere chi viveva su altri siti ormai chiusi e per decongestionare l’ISP sovraffollato. Ci si arriva percorrendo una sterrata che taglia terreni coltivati. Qui non ci sono case di fango, ma teli e lamiere, argentei e abbaglianti sotto il sole africano.

Jean de Dieu viene da un piccolo centro vicino a Walendu Bindi, è fuggito con la sua famiglia, i bambini sulle spalle, in un pomeriggio di un sabato di febbraio del 2018, alle sei. Neppure una patata dolce per sfamarsi. Sanno che i miliziani hanno dato fuoco alle case di un villaggio vicino, sanno che arriveranno anche lì. Fuggono tutta la notte, senza sosta, fino al mattino. “Abbiamo aspettato che ci fosse una tregua, volevamo fare ritorno, anche solo per cercare dell’acqua. Abbiamo saputo che erano tornati la mattina, avevano preso le capre, dato fuoco alle case e portato via molte cose che erano rimaste”, racconta, con le gambe rannicchiate e le spalle appoggiate al muro intensamente giallo di quella stanza dove si dorme e si mangia.  “Viviamo ancora qui, nonostante le condizioni di vita”, aggiunge.

Chi scappa vuole arrivare a Bunia, più sicura dei centri rurali. I siti dove trovano riparo gli sfollati, benché potenziali bersagli, sono pattugliati dalla polizia e dai soldati della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Ma basta un sibilo a generare il panico. “Se intorno, a circa 7 km, già senti i colpi dei proiettili, non possono arrivare qui? È vicino a noi”, si chiede Jean de Dieu.

“Il campo è aperto, non c’è recinzione. Può essere attraversato, la gente passa da sinistra a destra. Non sappiamo davvero chi. Gli aggressori sono già entrati in citta”, aggiunge con preoccupazione François Mwanza Lwanga. Anche lui è tra i leader del campo ISP, presidente del comitato direttivo, fuggito con la sua famiglia e il figlio piccolissimo, di sole due settimane, da Sanduku, quasi cento chilometri da Bunia. Ci hanno messo tre giorni a piedi per raggiungere la città, era il febbraio del 2018.

Bile Luchobe

Elena Mbusi è seduta insieme a Bile davanti alla sua piccola casa, uno specchio incastonato nella parete di fango. E’ avvolta in un abito blu decorato di bianco, le maniche a sbuffo, e un foulard marrone magnificamente annodato in testa. Una piccola folla di ragazzi si accalca accanto alle donne.Non avevo paura, ma questa guerra sta uccidendo i nostri figli. Questa è la perdita più grande”, racconta. E’ arrivata all’ISP il 12 febbraio del 2018, da Bahema Baguli e oggi partecipa alle attività gestionali del campo, come Bile, che è igienista. “Siamo qui ma abbiamo molta paura. Diverse persone ci mandano messaggi dicendo che i combattimenti ci raggiungeranno anche in città, al campo profughi. Ma possano avere pietà di noi!”, esclama.

Si alzano, le due donne. Camminano lentamente attraverso i vicoli stretti, fino ad un grande spiazzo sulla cima della collina, dove soffia il vento e sale il fumo dei bracieri sui cui si prepara il cibo, i bambini giocano silenziosi e la manioca si asciuga al sole su immensi teli color panna. Poco lontano c’è il capannone dove vive Bile, casa comune di terra e tavole di legno attraverso cui filtra una luce chiarissima. Una parete è coperta da sacchi e teli che sembrano riassumere tutti i colori dell’Africa. I bambini si lavano nelle bacinelle mentre le madri impastano farina di manioca per farne foufou, una sorta di polenta. Anche lei, li con i suoi sette nipoti e molti altri parenti, è spaventata dal crepitio notturno delle armi da fuoco. “Ho paura di quasi tutto. Sono traumatizzata e nel sentire che ciò che è successo a Djugu sta accadendo qui … Quando ricordo cosa è accaduto nel mio villaggio, ho attacchi di panico”, aggiunge.

Si possono alleviare solo piccoli traumi nei campi. Quando le condizioni dei profughi sono troppo gravi, vengono affidati all’Ospedale mentre è un’organizzazione non governativa congolese, la Sofepadi, a prendersi cura delle donne vittime di abusi, spiega Josèphine Atibaguwe, infermiera al campo di Kigonze.

La paura paralizza. Chi vive nel campo lo sa. Fuori, poco lontano, l’insicurezza non cessa, non si può far nulla se non aspettare e sperare che gli aiuti alimentari, sempre troppo pochi, non vengano mai a mancare. Uscire dal campo è un rischio che pochissimi si sentono di correre, i bambini, invece, si spingono fino nel centro città a chiedere l’elemosina, prede facili per il reclutamento nei gruppi armati. I siti dove vivono gli sfollati segnano il limite tra la città e la campagna, ma la campagna è inaccessibile. “Prima, saremmo andati nei campi nelle vicinanze della città per lavorare a giornata, ma chi ha il coraggio di attraversare il ponte Shali, non torna più. Se vai lontano, possono ucciderti per niente”, spiega Rachel Turache, che vive a Kigonze ed è di Liseyi, madre di cinque figli. E’ la rappresentante di chi vive nel blocco 1, settore B.

“Questa vita è troppo difficile”, esclama Francois. “Sembriamo persone senza responsabilità perché non dipendiamo più da noi stessi ma dalle ONG. Siamo disoccupati e senza lavoro. La nostra intelligenza continua a ridursi. Anche il comportamento dei bambini sta cambiando”, spiega.

I panni appesi al soffitto, le pentole in un angolo accanto a un piccolo fornello dove si cucina bruciando quelle sfere scure che si vedono seccare al sole, carbone impastato con l’acqua da donne e bambini, Francois racconta di quanto sia dura. Per sua moglie sarebbe un problema se non potesse comprare un pagne, l’ampio telo di stoffa con cui le donne si cingono la vita: lo indossa chi è sposata, forma visibile della dignità e del rispetto. Non è la vita che si faceva nel villaggio, si mangiava bene li, ricorda François, ì i bambini crescevano bene, mentre ora la malnutrizione infantile dilaga. A Kigonze, ogni mercoledì, c’è una seduta di alimentazione per i casi più gravi di malnutrizione acuta. I bambini ricevono un alimento già preparato, fatto di arachidi, latte ed altri ingredienti.  Di notte fa freddo, di giorno troppo caldo, e le zanzare portano le malattie. Nel centro medico, Josephine indossa un camice candido, distribuisce i farmaci. I casi che registriamo di più sono malaria, diarrea e, nei bambini, la malnutrizione”, spiega. Niente Covid, ma solo febbre e tosse, e niente peste, quella che è tornata a nord, ad Aru.

Carbone

Le case a Kigonze sono in file parallele e si affacciano su vialoni sterrati dove scorre quel poco di attività che è possibile: qualche moto, piccoli spacci che vendono di tutto, donne che pestano le foglie di cassava, manioca che viene macinata da rumorose mole. La vita rimpianta è quella delle campagne africane, cosi rigogliose, benedette eppure martoriate, dove il cibo è in guerra con il sottosuolo, dove l’oro, l’agricoltura ed il bestiame non sembrano riuscire a spartirsi la stessa terra. Anche Bile, che era insegnate di scuola elementare, come Rachel, andava in campagna, dopo il lavoro.

“Cerchiamo di vivere nonostante tutto; di certo questa non è la vita che facevamo nei nostri villaggi”, spiega Rachel, le mani appoggiate su un pagne giallo, macchia di colore nella monotonia dei teli chiari tutti uguali delle case di Kigonze+. Brillano gli strass della sua blusa, mentre racconta di cosa la guerra ha distrutto, delle mattine in cui ci si svegliava presto per curare il bestiame prima di andare nei campi, e delle sere a integrare il reddito familiare con una piccola attività commerciale.  La mia più grande passione era nutrire il mio bestiame”, aggiunge Michel Kiza Barongo, seduto accanto a Rachel su una sedia rosa di plastica, sotto una tettoia per ripararsi dal sole. Viene da Fataki ed era un capo villaggio, qui lo è del blocco 15 nel settore B.

Difficile dover accettare di dipendere dagli altri, di perdere quanto faticosamente costruito. C’è chi prova a tornare indietro, chi non vuole lasciare le proprie case, anche se una tregua non vuol dire la pace. In pochi sono riusciti a riprendere la vita di prima. Quando hanno attaccato il villaggio di Jean de Dieu non tutti hanno raggiunto subito Bunia, alcuni sono tornati per lo spazio di una stagione. “Hanno anche coltivato i campi, ma quando si è avvicinato il momento del raccolto, [la violenza] è esplosa di nuovo”, racconta Jean de Dieu. “In quanto leader e rappresentanti, stiamo rassicurando le persone dicendo loro che tutto ciò che accade oggi passerà, che possono restare in questa situazione perché se vanno oltre, continueranno ad andare incontro ad altre situazioni pericolose”, aggiunge.

Kigonze ha un comitato direttivo, come l’ISP, profughi che aiutano profughi, insieme alle organizzazioni locali e a quelle internazionali, UNHCR, WFP, Caritas, IOM. C’è chi si occupa della salute, delle donne, del gioco e dei bambini, della sorveglianza. All’ISPci sono trentotto avenue, strade o “Bloc”, ognuna con un suo leader.

Cercano di convincerli a fermarsi per interrompere la spirale che conduce a fughe continue, ma tentano anche la più complessa tra quelle che Jean de Dieu definisce opere di “consapevolezza”: aiutarli a sostenere il peso della sofferenza e a non farsi ingoiare da un’altra spirale, quella che dal rancore conduce alla violenza. “Ciò che stiamo facendo qui è della sensibilizzazione per alleviare la loro tensione. Dare consigli affinché gli sfollati non partecipino a manifestazioni qua e là in città e in modo che sappiano come affrontare lo stress perché tutti qui hanno la loro storia”, spiega Francois. Storie come quella di Bernadette Ngaji, sessantatre anni, di Largukwa, igienista del campo, anche lei testimone di violenze e saccheggi. E’ seduta per terra sulla soglia della sua casa nel campo di Kigonze, il pagne marrone decorato di viola e beige, appoggiato come una coperta sulle gambe distese. Fa fatica a piegarle, tre proiettili le sono costati una lunga cicatrice sulla gamba sinistra che deve usare come perno per alzarsi e bruciature che assomigliano a petali sfioriti sulla destra. “Nel mio villaggio, ero una grande lavoratrice. Avevo i miei negozi, vendevo carburante e avevo tre veicoli e tutto è stato bruciato … Sono qui come un disabile vittima della guerra”, racconta.

Bernadette resta perché fuori sarebbe peggio; fuggiranno solo se la guerra dovesse raggiungerli. Anche Elena resta: “Non posso tornare lì, non in questa insicurezza. Se ci sarà un ritorno della pace, certo, tornerò”. Ma in questo buio pesto che è la vita dei profughi, buio come quello che abbaglia quando provi ad entrare nelle loro anguste abitazioni, ci si aggrappa alle scarne parole di Michel: “È stato l’aiuto reciproco tra le popolazioni che mi ha colpito di più”. Solidarietà dentro un conflitto di cui nessuno, all’ISP e a Kigonze, riesce a spiegare le ragioni, perché tentare di capirle significa districare una matassa di fili tutti diversi che da Bunia, capitale assediata dalla disperazione di chi cerca rifugio e sorretta dal coraggio di chi lotta per tessere con quegli stessi fili la trama della pace, conducono nei villaggi rurali e poi, molto più lontano.

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LA GUERRA DIMENTICATA D’ITURI

Fuggire la guerra, ritessere la vita nei campi porfughi di Bunia

In bilico tra orrore e speranza nei villaggi dell’Ituri

 

Credits: Elena L. Pasquini

Produzione e trduzione swhaili: Akilimali Saleh Chomachoma