Il vino scivola lento come olio lungo le pareti del bicchiere di cristallo che tengo tra le mani. Lo guardo, come ipnotizzata, mentre resto in silenzio seduta ad un tavolo di un ristorante del centro di Roma. Non dovrei, ma sto ascoltando la convesazione dei miei vicini. Quelle parole, in verità, non mi sono nuove. Si sostiene un pensiero che pare essere assai comune, che se sei povero e vivi in un luogo dove l’esistenza è assai più precaria che da noi, sei quasi abituato alla sofferenza, adattato alla fatica e alla morte. E questa morte è un po’ meno morte, un po’ meno dolorosa.

Si suggerisce che, in fondo, la vita in certi angoli oscuri della terra possa essere persino invidiabile. La teoria è certificata, sembrerebbe, dall’esperienza diretta di alcuni tra i commensali, sempre felici di tornare in quelle terre disastrate d’Africa dove si può ancora respirare il contatto con una vita primordiale e quindi piena soltanto dell’essenziale.La perdita delle persone che amiamo è uno squarcio in mezzo al petto, un dolore assoluto. La sofferenza è solo nostra, come se al mondo nessuno possa provare nulla di più straziante. E’ l’attimo in cui la speranza si frantuma e si perde la coscienza di appartenere tutti alla medesima storia.

Seduta accanto a mio padre non pensavo a quanti ne avevo visti di donne e uomini lacerati come ero io. Di quante madri, spose, padri, fratelli avevo osservato aspettare negli ospedali, davanti alle porte degli obitori che conducono a quel vuoto di ghiaccio che quando va bene puzza di medicine – ma non quelle dei vivi -, molto più spesso è solo tanfo acido da cui nulla sembra proteggere.

Nessuno avrebbe potuto comprendere quanto fosse insopportabile immaginare la mia vita nella sua assenza. In quel momento il dolore degli altri, che il mio mestiere mi ha costretta a guardare negli occhi tante volte, era sparito, svanito. Esistevo solo io.

Mio padre è morto perché era malato. Dopo di lui, le lacrime dell’addio hanno inciso la mia pelle molte altre volte. Addio prematuro di affetti così cari da essere mattoni del mio scheletro, pezzi di carne, famiglia di sangue e di spirito. Disgrazie, si dice. Troppo giovani per morire, ma morti per gioco del destino, morti nonostante i farmaci da migliaia di euro, l’impegno della ricerca e di una medicina che compie ogni sforzo, ma che ad un certo punto si deve arrendere. Eppure, morti sapendo che tutto ciò che l’intelligenza dell’uomo ha scoperto gli è stato messo a disposizione. Morti con la morfina che lenisce il dolore, accompagnati fino all’ultimo respiro. Qui, a Roma, in un paese sospeso in mezzo ad un mare che è un cimitero.

Il lutto è il momento in cui ci si può concedere di credere che al mondo siamo solo noi a soffrire. Ma i giorni del pianto passano e il vuoto si riempie di ricordi e memorie, ed i morti tornano ad essere, per una ragione insondabile, vivi. Torna il tempo di costruire, di rendere omaggio con la vita alle vite passate, anche solo ricordandoci che la morte è uguale in ogni angolo del pianeta, uguali le grida, i pianti e la cura di quei corpi difficili da lasciare andare.

Eppure c’è chi sostiene che la sofferenza muti a seconda della latitudine, o persino dal quartiere in cui si è nati. Che ci siano popoli così abituati a convivere con la precarietà da non sentire più il dolore della perdita come un dolore incondivisibile, che la morte di un figlio sia cosa diversa se la madre ne ha sette o otto ed è cosciente che potrebbero non diventare adulti. C’è chi dice che anche la povertà e la fame siano più tollerabili in un modo di poveri ed affamati.

Una sera d’Etiopia, di un inizio di ottobre dopo le piogge, dopo aver seppellito troppe parti di me, per un lungo attimo ho smesso di respirare. I chirurghi dell’Hewo Hospital, volontari di Laziochirurgia progetto solidale, erano in sala operatoria per l’ultimo intervento della giornata ed io li aspettavo per tornare insieme agli alloggi dei volontari. Per quel paziente non ci sarebbe stato nulla da fare. Aperto e richiuso, giovane uomo neppure trentenne con un cancro all’intestino che in quell’altopiano spazzato dal vento non avrebbe avuto neppure i farmaci per domare il dolore. Morte atroce. Inimmaginabile.

Ho pensato a mio padre, agli amori perduti, al dolore e allo strazio che avevo vissuto e alla figlia di quell’uomo, che se mai ne avesse avuta una, forse avrebbe sofferto esattamente come avevo sofferto io. L’aria, già rarefatta ad oltre duemila metri d’altezza, non c’era più.

De Andrè cantava che il dolore degli altri è un dolore a metà. Ma non è sempre vero. Ci sono altri, in questo mondo, il cui dolore, semplicemente non esiste. Altri per cui morire è accettabile, altri che non piangono i figli perduti e le madri morte di parto, o che non temono la fame o la miseria. Altri che muoiono a mucchi e sono solo dei numeri, schiacciati come formiche. Altri a cui la schiena non si spezza portando l’acqua sulle spalle per ore, o di cui nessuno si cura se finiscono cadaveri ai bordi delle strade.

Ci chiediamo perché fuggono, loro abituati a patire. Certo sorridono, cantano, festeggiano, vivono, le donne si truccano, i bambini giocano. Ma tutti, poi, sorridiamo, cantiamo, festeggiamo, viviamo, ci trucchiamo, giochiamo, quasi sempre, anche dopo il più feroce dei dolori.

Quel giorno in Africa pensai che non avrei potuto sopportare ancora il contatto con quelle sofferenze. Che non valeva la pena stare lì, o altrove, a vedere altro scempio, fare un mestiere che in tanti dicono essere inutile, scrivere cose lontane di cui nessuno si cura, soprattutto scrivere di chi prende le decisioni che conducono a quei disastri. Molte altre volte mi è accaduto, da allora, di smarrire il senso, e le parole, e fissare per mesi una pagina vuota.

Eppure non sono mai riuscita a cancellare gli occhi di una bambina uccisa dall’ AIDS con i capelli raccolti in tanti piccoli ciuffetti colorati; le mani di una madre che espongono il corpo di un figlio coperto di mosche e ormai senza vita; il cadavere di un uomo lasciato marcire lungo il ciglio di una strada, discarica dove giocano incuranti animali e bambini.

Ho pensato a mio padre e a tutti quei rami recisi. Mio padre è morto perché era malato. Ma gli altri, quelli che un figlio in più uno in meno cosa vuoi che sia, muoiono spesso per mano di uomini che pure sanno cos’è il dolore, che conoscono il sapore del lutto, ma combattono guerre e disegnano politiche di rapina, rubano terre e cementificano il mondo, avvelenano il suolo che dovrebbe nutrire. Muoiono per l’indifferenza di chi non riesce a sentire che il lutto è lutto, ovunque. Che alla morte nessuno si abitua. Muoiono perché qualcuno smette di raccontare che siamo tutti uguali, con gli stessi bisogni profondi; perché qualcuno smette di insegnare, curare, spiegare la compassione che non è la carità o la pena, ma condivisione di passioni, sofferenze e bellezze.

Siamo diversi in questo mondo che si fa sempre più piccolo. Culture, livelli di istruzioni, modi di pensare differenti, ma tutti, in un modo nell’altro cerchiamo le stesse cose, cerchiamo la stessa bellezza, soffriamo gli stessi dolori.

La sofferenza insegna, a volte. E per chi sa utilizzarla può diventare saggezza. Ci sono uomini e donne capaci di vivere una vita piena anche all’inferno. E c’è anche chi impara a convivere con il dolore, a sopportarlo. Ma il dolore resta dolore e non esiste un adattamento alla morte di un figlio, alle bombe o alla fame. Per questo si scappa, per questo si cerca un futuro migliore. Per questo non si può smettere di scrivere, raccontare, curare, insegnare.

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Cuore di Cane, Mikhail Bulgakov